Il 1° febbraio 2020 è entrato in vigore l’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione Europea. Il Regno Unito è diventato uno stato terzo nei confronti dell’Unione Europea. “Beh, quindi? Quali saranno le conseguenze economiche, politiche e sociali di questa scelta?” – vi chiederete. Ma, soprattutto: “Gli scenari post Covid-19 quali potrebbero essere?” È proprio da qui che parte una breve analisi, fino ad arrivare alle mie considerazioni personali.

Di Eleonora Perdichizzi x Ottocollective.

Tutto cominciò nel 2016. Perché gli Inglesi sono usciti dalla UE? La vincita dei populismi.

E partiamo dal principio: perché il 51,89% degli inglesi ha votato Leave nel referendum del 23 giugno 2016? Dopo un’attenta ricerca, ho scovato le ragioni principali. Prima ragione su tutte, un maggior controllo delle frontiere, inteso come eliminazione della libertà di circolazione sia di merci, che di persone.

A questo proposito, mi è venuto in mente che esiste un trattato internazionale, l’Accordo di Schengen, che prevede la creazione di uno spazio comune tramite la completa eliminazione dei controlli alle frontiere. La curiosità, però, sta nel fatto che il Regno Unito non ne abbia mai fatto parte, ed è quindi a voi che lascio trarre le conclusioni.

A sostegno di questa motivazione -cioè il controllo delle frontiere-  c’è da dire che, grazie all’introduzione di visti e permessi, ci potrebbe essere una più elevata sicurezza e controlli maggiori sulle armi, ma soprattutto un controllo più elevato sull’immigrazione.

Quest’ultimo tema, che non esito a definire molto spinoso, avrebbe a che fare con qualcosa che va oltre la criminalità, il lavoro.

E quando si parla del lavoro, si sa già che l’elettorato impazzisce.

La questione del ribasso salariale. Verità o chimera?

Si sostiene che, limitando l’ingresso di immigrati europei, si ridurrebbe l’afflusso nel Regno Unito di lavoratori che, negli ultimi anni, ha portato a un ribasso salariale a svantaggio dei lavoratori inglesi. Sebbene, secondo la legge della domanda e dell’offerta, ciò non sia errato (all’aumentare dell’offerta di lavoro, si riduce il salario d’equilibrio), c’è una considerazione importante da fare: che tipo di lavoro svolgono gli immigrati UE in UK?

La maggior parte delle persone che migrano in UK svolge un lavoro non qualificato, e – secondo il teorema di Stolper-Samuelson (https://it.wikipedia.org/wiki/Teorema_di_Stolper-Samuelson) – il Regno Unito, paese relativamente abbondante in lavoro qualificato (si ricorda che l’attività economica inglese è per la maggior parte basata sui servizi finanziari, sull’industria automobilistica e su quella chimica e farmaceutica), aprendosi al commercio internazionale, tenderà a favorire il lavoro qualificato in relazione a quello non qualificato, aumentandone il salario reale.

Si danneggerà il fattore relativamente scarso nella nazione – il lavoro non qualificato – con una susseguente riduzione del salario reale dei lavoratori non qualificati. Quindi, la decisione del governo britannico di richiedere solo immigrati qualificati, sarà a suo vantaggio, o porterà a un peggioramento della salute economica del paese?

Gli imprenditori e il Leave.

Ci sono, infine, anche altre due motivazioni che probabilmente avrebbero spinto qualche imprenditore a puntare sul leave. In primo luogo, uscendo dall’UE, si otterrebbe una ridotta pressione sulla sostenibilità ambientale e quindi una riduzione sostanziale di restrizioni e regole da seguire. Infatti, uno dei pilastri della strategia Europa 2020 è proprio quello della crescita sostenibile, e ricordiamo tutti il Green Deal di Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Europea. In secondo luogo, si parla di una ridotta macchinosità e lentezza della burocrazia europea. Alcuni parlano, infine, di una riduzione dei costi. Effettivamente, da ciò che si legge nel bilancio europeo, la Gran Bretagna pagava circa 12 miliardi di contributi all’UE, dei quali solo il 60% erano fondi ridestinati al paese stesso.

Gli Scenari possibili. Brexit Horror Story.

Dopo questo veloce excursus sulle fondamentali ragioni che hanno portato alla Brexit, andiamo alla parte più succosa del discorso. A che punto stiamo con le trattative con l’UE? A seguito dell’emergenza mondiale Covid-19, quali scenari dobbiamo aspettarci? Possiamo parlare di altre potenze mondiali interessate al Regno Unito?

Il Periodo Transitorio.

Dal 2 marzo 2020 è iniziata la fase delle trattative, anche chiamata Periodo Transitorio, che vede le controparti tracciare tutte le condizioni per un’uscita non troppo devastante del paese. In questo periodo il Regno Unito continua a partecipare al mercato unico e all’unione doganale, senza aver rappresentanza nelle istituzioni europee.

In teoria, entro il 1° luglio 2020, potrebbe essere prorogato il periodo delle trattative fino a un massimo di due anni, ma al momento, il Governo britannico non ne ha intenzione.

 A questo punto vi sarete detti: “Beh, allora saranno sicuramente a un buon punto, visto che mancano solo 6 mesi!” Mi dispiace deludervi, ma, al 15 giugno, giorno dell’incontro tra Ursula von der Leyen e Boris Johnson, le trattative sono bloccate. Tra i vari punti di stallo, quelli di rilevanza economica sono due.

  1. Innanzitutto, la disciplina dei diritti di pesca, per cui l’Unione Europea vorrebbe il mantenimento dell’accesso reciproco delle navi dell’Unione e del Regno Unito alle acque, stabilendo quote stabili di contingente, mentre il Regno Unito vorrebbe un regolamento sulla base di rinnovi annuali per l’accesso reciproco alle acque, come quelli condotti dall’UE con Norvegia e Islanda.
  2. Ma soprattutto il leveling playing field, la clausola di parità di condizioni per evitare concorrenza sleale.

Il Leveling Playing Field spiegato bene.

Il Regno Unito punta a un accordo di libero scambio, in linea con quelli negoziati dall’UE con Canada e Giappone, che preveda assenza di tariffe o contingenti, ma senza allineamento politico.

Le ragioni secondo cui il premier aspiri un accordo più flessibile sono chiare: questo vorrebbe avere la libertà di negoziare, senza troppi vincoli normativi, con altri paesi, quali Stati Uniti e Australia, con cui punta a un’integrazione economica, ma anche Cina e India, essendo questi due paesi in fortissima crescita economica.

Invece, l’Unione europea, dal canto suo, resta ferma su un accordo di libero scambio con integrazione normativa. Addirittura, questa si è dichiarata disponibile a un accordo che limiti al minimo la rottura drammatica al solo patto di garantire i diritti dei lavoratori, i sussidi alle imprese e la protezione dell’ambiente.

La questione della garanzia sulla parità di condizioni in materia di concorrenza e standard comuni è talmente importante per l’UE che dichiara di voler porre il veto su tutto l’eventuale accordo commerciale post-Brexit, nel caso in cui non vengano rispettate le condizioni.

Uk e il Resto del Mondo

Essendo che l’UK, una volta uscita dall’Unione Europea, dovrà interfacciarsi col mondo, mi è sembrato logico analizzare brevemente quale sia la sua posizione nei confronti della potenza economica con cui – almeno fino al periodo pre-pandemia – più desiderava stringere alleanza: gli Stati Uniti.

Diciamo che le direzioni su cui è orientato nelle trattative con l’UE, ci fanno capire come Johnson desideri a tutti i costi un’integrazione economica con Trump che, a parole, è bravo a promettere.

Prima del Covid-19, Trump ha fortemente sostenuto un approccio duro nell’uscita dell’UK dall’UE, dicendosi pronto ad affrontare insieme anche un possibile no deal.

Ma quali sarebbero gli ostacoli che potrebbero imporsi su questa alleanza?

Primo su tutti, Trump dichiara che non firmerà nessun accordo con Londra finché questa non rinuncerà a tassare le big company americane dell’Internet: Facebook, Google e Amazon.

In secondo luogo, capiamo quanto sia difficile stringere un’alleanza economia con gli USA dal TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), accordo bilaterale che tra il 2013 e il 2016 USA e UE hanno cercato di stringere, non trovando accordo sui prodotti alimentari e le merci di origine animale.

La parte interessante, secondo me, è che i punti di stallo negli accordi con l’UE – sul leveling playing field e sul rispetto degli standard comuni UE – hanno chiaramente a che fare con l’intenzione di Johnson di facilitare gli scambi con gli Stati Uniti.

Ma la crisi economica mondiale che seguirà questi mesi di pandemia quanto inciderà sui futuri accordi tra il Regno unito e il resto del mondo?

Beh, partendo proprio dagli USA, siamo tutti al corrente sia della loro tragica situazione sanitaria ed economica (2,2 milioni di casi confermati di coronavirus e 120 mila morti; e un tasso di disoccupazione al 13,3%) che delle criticità sociali che si sono presentate recentemente tra i manifestanti BLM e le forze armate.

Puntare sugli USA sarà stata la mossa giusta per Johnson? Credo proprio se ne stia rendendo conto anche lui, a giudicare dal recente piccolo passo indietro compiuto nei confronti dell’UE.

Infatti, l’unico passo avanti di cui possiamo parlare nelle trattative con Bruxelles è il passo indietro di Boris Johnson che, il 12 giugno 2020, dichiara che dal 1° gennaio 2021 verranno effettuati controlli meno rigorosi di quelli previsti sui beni provenienti dall’Unione Europea, e che la decisione resterà valida anche in caso di un no deal. Un approccio decisamente più flessibile e meno rigoroso… Coincidenze? Non credo.

La pandemia ha portato contrazioni economiche ovunque, ma soprattutto una riconfigurazione del Regno Unito nello scenario geopolitico globale, portando nuovamente l’attenzione sugli scambi commerciali con i Paesi UE. Vi ricordo che l’80% del cibo in UK sia d’importazione europea, e che l’UE rappresenta per la Gran Bretagna, il partner economico più rilevante. Inoltre, a rinnovare l’attenzione sull’UE ci sono le tensioni economiche e geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, di cui si parla addirittura come nuova guerra fredda.

Per di più, a peggiorare la situazione corrente, ricordiamo la pessima gestione dell’emergenza sanitaria da parte di Boris Johnson che, in un primo momento, puntò all’immunità di gregge, per poi passare al lockdown. Il virus incide per circa il 35% del PIL del Paese, e la situazione si fa ancor più critica analizzando il piano di ripresa del paese.

Boris e il Debito Pubblico.

Non facendo più parte dell’UE, il Regno Unito non riceverà la sua parte dei recovery fund e Johnson si dice pronto a un sovraindebitamento, facendo schizzare il rapporto deficit/Pil al 9%, tramite la vendita di titoli di Stato agli investitori. Quindi, Downing Street si preparerà alla più grossa vendita di Gilt di sempre, ma la domanda sorge spontanea: chi li comprerà? In questa situazione d’emergenza i mercati sono impazziti e l’incertezza è sicuramente più elevata in uno stato con una gestione pessima della pandemia che sta per uscire da una delle potenze economiche più rilevanti, restando da solo. Ci investireste mai i vostri soldi? Io, personalmente, no.

Ipotizziamo degli scenari futuri.

Detto ciò, arrivati a questo punto, proverò a riassumervi la mia visione riguardo alla futura navigazione del Regno unito nell’oceano del commercio internazionale.

Un possibile accordo con gli USA sarà ancora molto lontano, così come quello con la Cina. Le trattative con l’India non saranno così facili, sia perché anche in India la situazione Covid-19 è una delle peggiori al mondo, sia perché questa non è più una piccola colonia inglese ma, al contrario, nel periodo pre-Covid registrava tassi di crescita del Pil intorno al 7%, ed avrà sicuramente un potere contrattuale più elevato di quanto ci si aspetti.

Indovinate da chi tornerà l’UK? Sicuramente dal suo vecchio amore, l’Unione Europea.

Infatti, secondo me, nonostante non sia contemplato il rinnovo delle trattative (per cui ricordo scadere il 1° luglio il termine per richiedere l’allungamento del periodo di transizione), l’UK tornerà nelle braccia dell’Europa, accettando in qualche modo le imposizioni da quest’ultima apposte sull’accordo di Brexit. Effettivamente, se questo non avvenisse, le conseguenze del no deal sarebbero talmente devastanti da farci pensare di star guardando un film horror che è durato e durerà anni. Tutto questo a partire dal rischio di separatismi interni, come vediamo dalle reazioni di Scozia e Irlanda del Nord alla Brexit, fino alle questioni economiche che vi spiegherò immediatamente.

La regola del Most Favourite Nation.

Un no deal comporterebbe la regolazione degli scambi commerciali tra Regno Unito e Unione Europea da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che prevede la regola della Most Favourite Nation, secondo cui ogni Stato si impegna ad applicare alle merci provenienti da un paese terzo dei dazi e contingentamenti equivalenti a quelli già stabiliti nei confronti di altri paesi terzi, a meno che non esistano dei precisi accordi commerciali bilaterali.  Di conseguenza, innanzitutto non sarà prevista l’istituzione di un’area di libero scambio, e verranno apposti dazi e contingentamenti che, seppur equivalenti a quelli previsti per altre nazioni, danneggeranno sia le importazioni che le esportazioni inglesi (ed europee), prime su tutti le esportazioni scozzesi di salmone.

Inoltre, la Brexit peserebbe ulteriormente in uno scenario geopolitico già fortemente minacciato dalla guerra tra USA e Cina, che porterebbe ancora più incertezza, attirando ancor meno investitori, e facendo deprezzare il valore della sterlina (che, essendo in un regime di tassi di cambio flessibili, è fortemente influenzata dalle reazioni di mercato). Il deprezzamento della sterlina, a sua volta, avrà un effetto leggermente positivo sull’export, che verrà tragicamente spiazzato dall’effetto negativo sull’import. Infatti, si apprezzeranno i beni importati dall’estero, provocando un innalzamento della domanda interna, che potrebbe non trovare soddisfazione nell’offerta interna. Le regole del commercio internazionale, infatti, ci ricordano che un paese esporta i beni prodotti tramite un intensivo impiego del fattore più abbondante nel paese stesso. Di conseguenza, si importeranno i beni intensivi del fattore meno abbondante nel paese. Quindi, un incremento del prezzo dei beni importati, aumenterà la domanda interna di prodotti che, per ragioni economiche, venivano prodotti a livello domestico in piccole quantità, e quindi l’offerta interna potrebbe non riuscire a soddisfare la domanda dei consumatori.

Tuttavia, l’implosione del Regno Unito nel caso di no deal non deve farci gioire per nulla.

In un contesto così internazionalizzato, il crollo dell’economia di un paese si ripercuote immediatamente sul mondo intero, più o meno negativamente a seconda dell’intensità di relazioni commerciali.

Detto ciò, la prima a subire conseguenze economiche tragiche sarà l’Europa, con una perdita di crescita del PIL stimata a – 0,5% nei primi due anni, e con effetti peggiori nei piccoli paesi che hanno forti legami commerciali con il Regno Unito, quali l’Irlanda, la Danimarca, il Belgio e i Paesi Bassi. Il calo del Pil sarà previsto anche nel lungo periodo, data la diminuzione dei flussi commerciali, soprattutto nel settore tessile, automobilistico e dei servizi finanziari.

Conclusioni

In conclusione, entrambe le parti, nella discussione delle trattative, hanno un forte interesse a mantenere questa rottura il meno tragica possibile. Il Covid-19 sicuramente non ha aiutato nelle tempistiche, che diventano più strette del previsto, ma ha sicuramente portato maggior consapevolezza per l’UK su chi è l’attore principale su cui basare dei sani rapporti commerciali sulla scena economica mondiale.

Inizialmente Londra pensava che, senza il mercato unico europeo e le sue regole strette, potesse diventare un attore economico formidabile, ma la Cina ormai è diventata una delle potenze economiche più rilevanti e l’India non è più una colonia indifesa. E per ultimi, gli Stati Uniti, bravi a parole, lasceranno sicuramente naufragare il Regno Unito.

La Gran Bretagna, piccola in uno scenario abitato da  giganti.

Nonostante sia una nazione ricca di tradizioni commerciali, la Gran Bretagna deve capire che nel 2020 resta sempre un piccolo paese con circa 67 milioni di abitanti che si interfaccia con potenze mondiali quali la Cina (1,386 miliardi di persone) e gli USA (328 milioni abitanti), per altro in contrasto tra loro; ma anche con l’India (1,370 miliardi di abitanti) e gli altri paesi emergenti che hanno economie straordinariamente in crescita. D’altronde, in un futuro ormai prossimo, gli investitori allocheranno sempre meno risorse finanziarie al vecchio continente, e si sposteranno sempre di più verso i paesi emergenti.

È meglio che il Regno Unito si dia una svegliata e che capisca che l’Europa è l’unico attore economico su cui ancora possa puntare per la ripresa post Covid-19. Con la Brexit, certamente subirà gli effetti delle decisioni europee senza parteciparvi, ma può ancora recuperare molto sul fronte economico.  

Fondamentalmente, Johnson deve evitare che la maggior parte delle imprese inglesi spostino le loro sedi per paura di non poter più commerciare alle stesse condizioni con i paesi europei, proprio ciò che stanno pensando di fare Honda, Sony e Panasonic dal punto di vista produttivo, e molti altri imprenditori di servizi finanziari che prevedono trasferimenti a Francoforte, Dublino, Parigi o Milano.

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