40 ore a settimana – 5 giorni a settimana.

All’incirca è questo il tempo che passiamo a lavorare. Lo standard novecentesco, sancito dopo lotte improbe da parte dei lavoratori e grazie ai sindacati. Non date mai per scontati i diritti che nel corso del tempo si sono ottenuti, senza di essi non avremmo la possibilità di andare avanti.

Ciò detto e premesso il lavoro è cambiato, almeno nelle parti fortunate del Mondo, quelle nelle quali possiamo e dobbiamo ragionare su come lavoriamo e su come sia sempre più necessario, forse, mutare il nostro approccio al lavoro stesso a partire dalla nostra vita.

Si parla di Yolo: you only live once.

Si parla di soft skills e di come le doti caratteriali, la nostra visione della vita, l’empatia, l’etica, la capacità di mettersi a disposizione, l’attitudine alla crescita personale, alla maieutica, siano sempre più rilevanti nel lavoro. Si parla di lavoro agile, della necessità di adattare il lavoro alla vita e non viceversa e della possibilità di farsi una famiglia e contemporaneamente dedicarsi alla carriera in modo fluido, liquido.

Eppure là fuori vive e vige ancora una tossicità mortale nel lavoro, un grado di inquinamento emotivo che fa a pezzi gli studi ragionati su quanto sia fondamentale e accrescitivo adottare un approccio umano, organico e costruttivo nel lavoro per il lavoro.

La pandemia ha attivato le “grandi dimissioni”. Una considerevole fetta di persone ha deciso di mandare a ramengo le carriere classiche per poter -giustamente- percorrere vie alternative: più personali, umane: “human based”.

La pandemia ha anche reso ben chiaro la quantità di bestie con le quali condividiamo la nostra vita lavorativa: diciamocelo, ammettiamolo.

La violenza nel lavoro, nel famigerato terziario è ampia, diffusa, nascosta, ma esiste.

Una violenza che si palesa in diverse forme, ma che ha un solo e grande amico, ovvero il POTERE, grande o piccolo che sia.

Se a una “bestia” viene data una qualsivoglia responsabilità, passerà la sua vita a rendere quella del prossimo un incubo.

Partiamo dalla violenza fisica.

(riporto fatti realmente accaduti non a chi scrive, ma storie dolorose raccontate.)

Cellulari che volano sulle teste degli astanti durante riunioni. Potete sostituire con qualsiasi altro oggetto, libri, dispense, manuali, penne, pinzatrici etc…accompagnati da improperi di vario genere tra i quali il più comune: “non capisci un cazzo”. Succede, è successo e non nel peggiore bar di Caracas, ma magari in qualche ufficio molto glamour e lussuoso o in qualche studio scintillante.

Pugni sulla scrivania accompagnati a urla e improperi per aver deciso in autonomia di migliorare un sistema di archivio folle dove solo il “paron” riusciva a capirci qualcosa. Un esempio di come l’atteggiamento propositivo non sia una “soft skill” gradita.

Palpeggiamenti, toccatine sfuggenti, imboscate, pacche in parti del corpo non consone: “ma dai, schezavo!” Ma certamente…è che la parola abuso non rientra nel vocabolario di molte persone, neppure “consenso”, men che meno “rispetto”.

E poi la violenza non fisica che si palesa in una miriade di varianti.

In questa categoria l’apporto femminile è sostanzioso, perché sì, gli strascichi patriarcali vivono benissimo un po’ ovunque, ma oltre ad un’attitudine patriarcale, a tratti pure paternalistica, non va dimenticato che l’inettitudine serpeggia felice ed è trasversale a industrie e settori: di solito è corredata da un solido contratto a tempo indeterminato. The Untouchables

Se per la categoria violenza fisica l’orrore è visibile e truce, per quella non fisica l’orrore diventa ansia, stress, disturbi del sonno, apatia e tutto quello che può essere definito come perdita di fiducia verso se se stessi e le proprie capacità.

Tra le testimonianze che mi sono arrivate in DM su Instagram, grazie alle storie pubblicate sulla tematica in oggetto, ho trovato una parola chiave: DISCREDITO

La violenza si palesa nel discredito.

Discreditare il lavoro, le capacità dei colleghi, le loro idee e punti di vista, discreditare i loro bisogni, le loro necessità è una tecnica dai grandi risultati.

Il discredito è per giunta una strategia di attacco di stampo mafioso. Il discredito degli altri è l’arma vincente degli inetti e annichilisce chi la subisce. Accade molto spesso, si reagisce poco, la si subisce.

Ma da che comportamenti passa il discredito?

Passa dal discreditare i bisogni delle colleghe neomamme, emarginandole con diletto e sufficienza.

Passa dal discredito delle competenze. Per cui si scelgono collaboratori possibilmente maschi, possibilmente azzerbinati così che non diano troppo fastidio: anche qui ritroviamo il concetto del “rifiutare una mentalità proattiva”.

Il discredito delle competenze è la fattispecie più utilizzata, capita che chi la subisce si senta improvvisamente incompetente, invece è la controparte ad esserlo, la quale, nascondendosi dietro task e processi del tutto inutili architettati ad arte, nasconde mancanze e sciatterie.

Come dice saggiamente l’Armadillo a Zero in Strappare lungo i bordi: “Il Capitalismo è vulnerabile ai cazzari”

Passa dal discredito della buona volontà di voler far bene a favore dei più fragili. Alcuni che si son messi sempre a disposizione durante la pandemia, senza nascondersi, ne han pagato conseguenze a causa di chi avrebbe volentieri nicchiato.

Passa dal discredito personale: “Non vali un cazzo”, subìto e perpetrato per anni e dal discredito professionale: “vali più di me e non lo posso soffrire”; un atteggiamento che porta a comportamenti subdoli, inibitori, castranti.

E continuo la galleria degli orrori…

Passa dal non rispetto degli accordi contrattuali, dall’affibbiare responsabilità enormi senza che gli accordi economici siano in linea con le tasks, una condizione bieca e a tratti vomitevole che ho visto più volte fare soprattutto a stagisti e/o figure junior.

Passa da una aperta discriminazione, passa dal sessismo, passa dal machismo, passa da minacce più o meno velate, ma soprattutto passa dal potere economico, dal fatto che se se hai una famiglia, degli impegni, il legame che ti tiene ancorato al lavoro tossico è difficile da sciogliere perché sale la paura.

Lo chiamano mobbing, è violenza. Denunciare?

Denunciare le violenze non è semplice. Esistono leggi sul “mobbing”, ma denunciare è difficile e se si denuncia prima alle Risorse Umane, tendono ad essere conservativi. Nelle esperienze che mi avete mandato il pattern comune è stato: “pagare per far tenere la bocca chiusa”. Orribile, insensato, disumano premiare la violenza per cosa? Non ammettere di avere una cultura tossica?

La cultura aziendale tossica esiste. L’etica del lavoro si è persa e forse, penso, quella fantomaticha e famigerata capacità dei manager di essere leader…è una cazzata bella e buona. Una storia che si cantano e suonano ai master, ai convegni, perché se penso alla mia carriera professionale, un percorso non lineare che mi ha portato a parlare e lavorare con molte persone e in vari settori, mi rendo conto che i leader vicini e veramente presenti nella comunità con la quale si interfacciavano quotidianamente, li conto sulla punta delle dita di una mano.

“Il Popolo muore di fame! Lanciate brioches”

Concludo questo lungo post plaudendo a chi ha mandato in tilt il sistema tossico aprendo porte e finestre per arieggiare e far uscire il veleno.

Serve qualcosa di strutturale, serve un sistema di ludibrio pubblico su queste vicende. Non tutti hanno la forza di dire “andate a quel paese” e questo genera una strozzatura nelle libertà personali. Inaccettabile.

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